giovedì 1 settembre 2016

De Dominicis amico pittore. Storia e cronistoria di un sodalizio. 29 gennaio ·

Un capitolo del libro dell' amico Stefano Malatesta ( "Quando Roma era un Paradiso", Skyra, 2015) offre un ritratto di Gino De Dominicis leggero e ben confezionato dal suo navigatissimo piglio giornalistico. Stefano tratta aspetti del carattere di Gino, gira intorno ai temi della sua arte e ne risulta una gradevole e intelligente occhieggiata come se cose e idee fossero, ben che orecchiate, esaminate dal buco della serratura. Malatesta si sofferma anche sul mio scritto dedicato alla amicizia con Gino, e di questo glie ne sono grato. Lo riporto integralmente:
IL DANDY COL FERRAIOLO
"...Gino De Dominicis faceva di tutto per assomigliare al sadico al quale un masochista aveva chiesto di frustarlo e il sadico aveva risposto: 'No !'. Gino era supponente, sfottente irriverente e controcorrente. Tutti quelli che andavano a intervistarlo per avere lumi sulla sua attività, venivano soavemente presi per il culo: 'Maestro come dipinge? '. 'Se il quadro è piccolo, da seduto. In piedi, se è un quadro grande'.
Non praticava la solidarietà mafiosa con gli altri colleghi pittori e già la parola 'collega' gli faceva orrore. Quando parlava degli artisti dell'arte concettuale, diventava perfido: ' sono molto popolari nel Sud dell'Italia, dove Concetta e Concettina sono nomi diffusissimi'. E a un grande sarto che si dava troppe arie consigliò: 'Le sue sfilate avrebbero molto successo se le indossatrici non indossassero i vestiti'.
Era un artista dandy, che dava all'eleganza un valore straordinario. Per vestire pescava da un guardaroba a metà tra il Conte Ventimiglia di Valpenta e di Roccabruna, detto il Corsaro Nero, e Cyrano de Bergerac. Attraversava Roma sempre avvolto da un ferraiolo nero lungo fino ai piedi e in testa calzava una bustina di Astrakan come il Dottor Zivago. Tutta una 'mise' che più letteraria non poteva essere.
Quando entrava all' Hemingway in Via delle Coppelle, famoso locale negli anni Ottanta, si levava la bustina, la lanciava in aria nel tentativo di centrare un gancio che pendeva dal soffitto. E quando il lancio falliva, lui non si muoveva dal suo tavolo, c'era sempre una cameriera che gliela riportava. Una volta, dopo aver tentato la performance per quattro volte senza riuscirci, venne affrontato da uno scrittore: 'se obblighi ancora quella poveretta a raccogliere il tuo cappello ti do' un cazzotto!'. I suoi modi altezzosi e sicuri di sé piacevano molto alle donne, le invitava in casa per sedute erotiche su cui si favoleggiava perché non c'era mai un testimone.
Gino era tanto Narciso da non voler meravigliare gli altri: gli bastava meravigliare sé stesso. Aveva alcune delle qualità che fanno il grande pittore: un totale assorbimento in tutto quello che lo ossessionava, una grande audacia nell'andare in territori che nessuno aveva attraversato in precedenza, ma veramente non so dire se fosse profondamente originale. Negli ultimi decenni la differenza tra la stronzata e l'opera geniale si è accorciata, e la vicinanza ha creato una certa confusione. Alcune delle sue pitture più interessanti mostravano figure dotate di grandi occhi che sembrano fanali, chiaramente ispirati da bassorilievi e sculture della Antica Babilonia, create quattromila anni fa dagli Elamiti. Ma qui ci vorrebbe la consulenza non di un critico d'arte ma del mio amico Mario Fales, titolare della cattedra di Assirologia all'università di Trento.
Per lungo tempo è stato molto restìo a parlare della sua attività e a mostrarla al pubblico: circolavano pochissimi esemplari delle sue opere, rifiutava gli inviti a manifestazioni importanti come Documenta Kassel e la Biennale di Venezia, dove anni prima aveva esposto un ragazzo handicappato suscitando il previsto scandalo dei politicamente corretti.
Affettava uno sprezzo totale per il mercato e si teneva lontano dalla pazza folla, assumendo un tono aristocratico e distaccato come quello di Balthus,per fare un grande nome. Aveva imparato da Marcel Duchamp che negarsi non era solo divertente, ma anche remunerativo per la gloria che si ammantava di mistero. Bisognava essere unici e non seguire mai nessuno, erano gli altri che dovevano seguire te. Gino riuscì in una impresa memorabile simile alla quadratura del cerchio: diventare un piccolo grande mito in una città cinica come Roma, che dava pochi certificati di fama.
Anni fa venne pubblicato un bel libro di Duccio Trombadori, intitolato 'De Dominicis amico pittore'. da cui ho tratto delle notizie riportate qui sopra. Duccio dà dell'artista un ritratto molto affettuoso e lo tratta come un quasi genio,apparentandolo a Lemmonio Boreo, figura eponima della provinci letteraria italiana creato dal Sor Ardengo, cioè Ardengo Soffici, così ritratto dal suo autore:'…un giovane bruno, alto, pallido, vestito di nero, libertario, ansiolitico e talmente persuaso che la teoria è grigia e l'albero della vita è verdeggiante da impegnarsi fino allo scontro fisico mortale contro i prevaricatori spirituali dell'arte, nella filosofia e nella politica…'.
La vicinanza con Lemmonio Boreo è stata una bella intuizione di Duccio Trombadori. Quello che non si capisce per un tipo dalle narici frementi come Gino è la sua frequentazione del mondo artistico romano, chiamiamolo così, costituito in misura preoccupante da burocrati, da 'sole', come dicono a Roma, da critici dada che parlano a vanvera, da quadri improbabili, di cui Trombadori ci da' un ritratto assai significativo anche se forse involontario. Ma questa atmosfera da Circo Barnum è l'unica possibile in un mondo in cui ci aspettiamo da un momento all'altro di vedere entrare gli elefanti."

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