venerdì 25 marzo 2016

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DELLA STREET ART

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DELLA STREET ART 

Museificazione di un’arte che nasce per strada e diritti dell’artista? C’è di più. La mostra di Bologna segna la fine della cultura underground. E ora c’è bisogno di una svolta

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Quello che sta accadendo in questi giorni a Bologna è un caso – con ogni evidenza mal gestito da tutte le parte coinvolte – di primo tentativo di musealizzazione della Street Art in Italia. Questo è infatti l’obiettivo dichiarato della mostra "Street Art. Banksy& Co. L’Arte allo Stato Urbano”, promossa da Genus Bononiae in collaborazione con Arthemisia Group, che sta suscitando infinite polemiche. Il Museo della Storia di Bologna si apre così al presente, ospitando nelle sue sale circa duecentocinquanta opere,  prendendo a modello il Museo della Città di New York, detentore di una delle pochissime e importanti collezioni di Street Art pubbliche presenti al mondo, insieme al MuCEM di Marsiglia e alla Cornell University di Itacha (NY). 
Un caso violentemente e tristemente esploso sulle cronache nazionali (con importanti strascichi anche sulla stampa europea), dopo il clamoroso gesto di protesta operato da Blu che, nella notte tra l’11 e il 12 marzo, ha deciso di cancellare ogni traccia dei suoi interventi ancora presenti in città. Addio per sempre, quindi, ai celebri dipinti sulla facciata del centro sociale Xm24 alla Bolognina, a quello sul muro della Scuola di Pace di via Lombardia, ai murales in via Marco Polo. Un gesto impulsivo che ha cancellato in poche ore quasi vent’anni di storia. Un’azione brutale intesa come chiara risposta alla scelta dei curatori della mostra al Pepoli, Christian Omodeo, Luca Ciancabilla e Sean Corcoran, di esporre le opere del writer senza alcun permesso ufficiale da parte dell’artista, "rubando” i suoi lavori alla strada per inserirli in un contesto privato, rendendoli pioneristici esempi di procedure di recupero e conservazione per questa particolare forma d’arte. 

Street Art - Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, vista della mostra
Fin qui la cronaca. Resta naturale chiedersi chi abbia ragione: i tre critici o l’artista? Senza voler cercare una comoda neutralità o una troppo facile presa di posizione a favore di Blu, ci limitiamo all’analisi dei fatti dopo aver avuto modo di visitare la mostra e leggere il catalogo che la accompagna, edito dalla Bononiae University Press. 
Fin dai suoi esordi, l’Urban Art si è mostrata come un fenomeno sfuggente, clandestino, fuori dalle regole fissate dal rigido sistema dell’arte. Non un rifiuto netto. Piuttosto un continuo mantenersi sul confine, un essere volutamente borderline. E basta citare Keith Haring oJean Michael Basquiat per comprendere bene questo processo altalenante tra purezza teorica e bieca (e naturale) pratica commerciale. Pensare quindi oggi a una museificazione della Street Art o a una sua commercializzazione, non si capisce perché dovrebbe poi in sé così tanto scandalizzare. Sono forse meno "artisti” di Blu o di Banksy, i due citati Haring o Basquait o i writer Cuoghi & Corsello, Dado o Rusty che invece hanno scelto di prendere parte a questo evento? No di certo. Ma crea un certo imbarazzo la volontà da parte degli organizzatori di staccare e mettere in mostra opere di artisti che volutamente avevano espresso un parere contrario. Opere effimere, che per Blu o per Ericailcane non devono essere restaurate in nessun modo, ma dovevano essere lasciate libere di seguire il loro corso in estrema simbiosi con la città che le ospita e i suoi cambiamenti. Anche a costo di scomparire con loro. 

Street Art - Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, vista della mostra
Per di più, in una delle interviste presenti in catalogo Ilaria Hoppe,  ricercatrice presso l’Institut für Kunstund Bildgeschichte di Berlino ricorda a Luca Ciancabilla – il vero promotore degli strappi insieme all’amico restauratore Camillo Tarozzi – la reazione di Blu, di quando, infastidito dall’utilizzo commerciale di un suo murale realizzato nella capitale tedesca, abbia deciso di colpo di cancellarlo, noncurante di fatto che fosse diventato un vero simbolo per gli abitanti di Kreuzberg. Forse solo per questa dichiarata consapevolezza – senza pensare alla violazione del diritto d’autore –, bisognerebbe sentirsi un po’ più responsabili del gesto di Blu, almeno quanto Blu stesso che l’ha compiuto. Sarebbe bastato così poco perché questa operazione si fosse ricordata magari come una  bella mostra e non come un’ennesima occasione per scatenare facili polemiche. 
Ma mettendo da parte mostra e curatori, veniamo al vero tasto dolente di tutta questa vicenda, che travalica i confini cittadini e si dimostra paradigma per una riflessione più ampia sull’intero sistema culturale italiano. La domanda è: mancheranno davvero gli interventi di Blu in città? In realtà credo di no. Questo gesto, quasi catartico, chiude definitivamente un’epoca, quella della cultura underground degli anni Ottanta–Duemila, sulla quale Bologna si è troppo spesso cullata e della quale Blu è stato l’ultimo dei tanti figli illustri. La città oggi è costretta a svegliarsi e a prendere consapevolezza del suo presente, purtroppo non così glorioso e attrattivo come il suo passato. 
C’è un bisogno evidente di sforzi congiunti tra amministrazione pubblica, accademia, università e istituzioni museali affinché emerga una nuova creatività capace di trasformare quel grigio lasciato da Blu in un nuovo simbolo. 

Leonardo Regano

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