mercoledì 11 giugno 2014

Marcellina Ruocco ci ricorda Glauco Verdirosi con l'articolo della Voce del Popolo





Articolo nella pagina Cultura de LA VOCE DEL POPOLO

l'attore SCOMPARSO NEL GENNAIO SCORSO

FIUME – Quasi per caso, sono venuto a sapere che uno dei più bei nomi della storia del Dramma Italiano, Glauco Verdirosi, ci ha lasciati nel gennaio scorso. A informarmi è stato suo figlio Massimiliano, attraverso uno scambio epistolare via Facebook. Visto che chi avrebbe dovuto ricordarlo – il Dramma Italiano – non l’ha fatto, mi si permetta di spendere qualche parola.
Glauco arrivò a Fiume nel 1957, con sua moglie Lucilla, entrambi ingaggiati dalla compagnia, all’epoca diretta da Osvaldo Ramous e, sul piano prettamente operativo, da Nereo Scaglia. Giunse nell’anno in cui Alessandro Damiani e Olga Stancich Damiani, i miei genitori, rispettivamente attore e suggeritrice del Dramma, lasciavano Fiume per Roma, mentre nel 1956 se n’era andato Carlo Montini, una delle prime “colonne” del complesso fiumano: era tornato nella sua Milano.
La prima casa che accolse per alcuni mesi i Verdirosi fu la nostra: grande, spaziosa, dove già da tempo viveva un caro amico di mio padre e mia madre, prima viola dell’Opera dello “Zajc”, il maestro Otello Damiani (nessuna parentela, pura omonimia), papà della professoressa Ingrid Damiani, da anni docente all’ateneo di Zagabria. Ero piccolo, nel 1957, quindi ho vaghi ricordi di Glauco, se non che si trattasse di una persona molto a modo, educata, gentile, perennemente sorridente; mentre sua moglie mi dava informali lezioni di Francese (con esito nullo...).
Di lì a poco il Teatro trovò loro un miniappartamento; non so dove, perché tra il 1959 e la fine del 1963 vissi a Roma con i miei. Al ritorno – a casa mi aspettavano mio fratello Silvio (Stancich, giornalista de “La Voce” e di tv Capodistria; scomparso alcuni anni fa, ancora ne sento la mancanza) e i nonni materni. Tra le, diciamo così “attività obbligatorie” da alunno delle elementari prima e del Liceo, poi, c’era quella di andare agli spettacoli del Dramma Italiano, che per noi venivano rappresentati la mattina, ovviamente. Dunque, giornata di festa: niente scuola, niente compiti, niente interrogazioni...
Per me, come per altri pochi miei coetanei era festa doppia, perché il dopospettacolo rappresentava un ulteriore momento di allegria: ‘sta volta in compagnia di amici di papà e mamma: gli altri fortunati erano Diego, figlio di Raniero Brumini, “la Svara”, figlia del pittore e attore Ermanno; Renata Scaglia e pochi altri con cui mi scuso se non li cito, ma la mia memoria, notoriamente, assomiglia all’emmental...
Tra l’altro, nel frattempo mio padre era rientrato a Fiume, più precisamente al Dramma. A metà dei Sessanta, come saltuario membro della filodrammatica del Circolo e di quella del Liceo, non di rado Glauco – ma anche Raniero e soprattutto Nereo – me lo ritrovavo come regista dei nostri spettacolini... Tutt’e tre erano assai spiritosi, dai modi di fare accattivanti, ognuno con la propria personalità.
Quella di Glauco rispecchiava la sua provenienza: romano per di più “nato” in teatro, dunque con qualcosa di molto diverso rispetto ai suoi due colleghi. Me, poi mi aveva in particolare simpatia per i mei anni trascorsi appunto a Roma... Lo ricordo come attore. Brillante, direi “geneticamente” impossibilitato a perdersi sulla scena (da figlio d’arte, gli era più che naturale salvarsi in qualsiasi occasione, vuoi che gli capitasse un lapsus memoriae o a causa di un affastellamento/postposizione di battute da parte dell’interlocutore). E sempre con la voglia di scherzare.
Ricordo che quando nel 1972 o 1973 esordì con il Dramma (“La cucina degli angeli”, regia di Spiro Dalla Porta Xidias), non di rado allorchè si trovava con le spalle al pubblico, era capace di farmi le smorfie, che a malapena riuscivo a evitare mi portassero a sganasciarmi apertamente dalle risa. Naturalmente, non lo faceva per cattiveria. Anzi, quest’esperienza mi tornò utile quando nei pochi anni in cui avrei fatto l’attore professionista, riuscivo a non battere ciglio di fronte alle cattiverie (queste si!) di colleghi poco benintenzionati con i propri partner...carognate da vecchi istrioni, spesso invidiosi.
Di solito a Glauco davano ruoli “brillanti”: come si legge nel “Dizionario dei Termini Teatrali” di Pietro Seddio trattasi di “ruolo garbatamente comico, ricco di elegante verve, che non scade mai nei toni farseschi”. Va da sé, comunque, che nell’economia del Dramma Italiano, quando tuttavia c’era bisogno di un ruolo prettamente comico o addirittura farsesco, i registi sceglievano lui.
Glauco, al pari di tantissimi attori, compresi i più bravi, non era portato alla pedagogia teatrale, più che non sapere insegnare, non gli interessava, anche perché era attore istintivo: la tecnica l’aveva appresa direttamente sulle tavole del palcoscenico. In complesso, seguendolo con attenzione non era affatto difficile riuscire a “rubare” qualcosa. Lasciò il Dramma quando ancora avrebbe potuto darvi tanto (e questo vale per tutti, dico tutti i componenti la “vecchia guardia”), non fosse altro nei ruoli di anziano o vecchio; tant’è che poi ha continuato, benché “in pillole” a esibirsi, a Venezia.
Ed è a Venezia che lo vidi l’ultima volta. L’andai a trovare in un’elegante Casa per l’Anziano, dove si trovava da alcuni mesi. L’occasione mi fu offerta dalla tournée del Dramma (con “Le Baruffe Chiozzotte” dirette da Pier Luca Donin), nel 2002. Il giorno dopo si recò a fargli visita il vecchio (si fa per dire) amico e compagno di palcoscenico, Giulio Marini, col quale aveva legato moltissimo negli ultimi dieci anni di lavoro. Nonostante gli anni e gli acciacchi, non aveva perso la sua verve, tantomeno la gentilezza. Naturalmente, aveva ancora sogni e progetti per la testa. Ma mi parlò soprattutto di suo figlio, che avevo conosciuto bambino, con entusiasmo e orgoglio.
Oggi Glauco Verdirosi non c’è più. E nessuno che si sia ricordato di informarsi “che fine avesse fatto”. Per nessuno, intendo coloro con cui ha speso parte dell’esistenza a lavorarci e chi rappresenta le istituzioni in cui ha lavorato. Brutto segno, quando il passato non conta più. Segno che il presente sta morendo. E il futuro... non si intravvede nemmeno.



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