lunedì 14 aprile 2014

Generazioni vittime di un equivoco

Andrea Naciarriti scrive di come nel '68 si è innescato il processo "del volere oltre il possibile", in un percorso di senso che coinvolge Marcuse e Debord, ma anche HAL 9000 e Pino Rauti...


Boriani, De Vecchi, Daranzati, Morandi, arredo urbano, Volterra, 1973


Jean-Luc Godard, Joy of Learning (Le Gai Savoir), 1969



Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello Spazio, 1968



Riccardo Dalisi, Rione Traiano, laboratorio con i bambini, 1969-73, Napoli


Mario Merz, che fare?, 1968-73



Guy Debord, La société du spectacle, 1973



Gruppo 9999, Image for New Domestic Landscape exhibition display, 1972



J. Ballard, Crash Original manuscript, 1973



UFO, Marcatrè, 1968




Scrivere del ’68 non è mai cosa facile, si perdono spesso le maglie che tengono assieme tutti gli aspetti convergenti per una esposizione chiara di quello che realmente avvenne e che a tutt’oggi non ha ancora una seria e appropriata storiografia, tanto che si incappa spesso in un grande equivoco. Ci sono aspetti che si contraddicono, ma soprattutto la contemporaneità ci restituisce una forma distorta di quello che sarebbe dovuto essere il “futuro”, il concetto che maggiormente ha caratterizzato quel periodo, le aspettative nel domani per una società migliore.

Ma anche in questo assunto di base, quando mai l’uomo non ha posto le sue speranze nel giorno che succede al presente?

Per rimanere in un ambito più verosimilmente legato alle arti, si pensi all’espressionismo tedesco che vedeva nella guerra il ritorno ad un grado zero a favore di un nuovo ordine sociale e si pensi al Costruttivismo russo che asseriva che il luogo architettonico fungesse da educatore della società, gli anni di maggiore sviluppo del Costruttivismo furono quelli del “comunismo di guerra”. Uno pre- e l’altro post-bellico furono legati entrambi a doppio nodo dal sentimento di rigetto verso l'arte borghese, individuando nel nuovo contesto politico-sociale auspicato prima e aperto poi da una guerra, la possibilità reale di costruire una nuova arte, spezzando l'isolamento di questa dalle masse.

E nel ’68, cos’è successo? Ci si è opposti alla “società opulenta, secolarizzata o del benessere”, ma come?

Ci si allontanava dalla Seconda Guerra Mondiale e il boom economico era iniziato, gli Stati Uniti avevano trascinato con sé la parte “buona” dell’Europa e nasceva "l'Occidente”: un modo di vedere il mondo da un punto di vista privilegiato; questo mentre l’Est Europa combatteva per liberarsi dai totalitarismi comunisti e in Cina erano ancora vive le ferite della Rivoluzione Culturale.
Insomma si può tranquillamente parlare di un momento privilegiato per il nostro Continente, eppure il malcontento era palpabile sin dagli inizi degli anni ’60.
Forse è nella prospettiva che si innesca il processo del volere oltre il possibile, e l’utopia diviene uno dei termini più usati per riconoscersi; la fame - quella con la F maiuscola - stava diventando un vecchio ricordo, soprattutto per le nuove generazioni. 

Un fatto è certo: in primis l’Occidente si deve confrontare con il mostro a mille teste di cui parla Marcuse prima e Debord poi cioè la “democrazia totalitaria”. Nel primo si intravede una possibile via d’uscita nell' “immaginazione al potere” e nell’ ”utopia”, il secondo paventa il fallimento e traccia la peggiore delle ipotesi: il Sistema fagocita e digerisce ogni aggressione allo stesso, integrandolo a sé, trasformandolo autogenerandosi attraverso la complicità collettiva. L’uno reduce dalle due Guerre e l’altro in prima linea in Francia con le pietre in mano, uno conosce la guerra, l’altro la vive in sé stesso sino al suicidio.
La democrazia diviene così il campo di battaglia, l’ambiguo con cui interloquire.
Norberto Bobbio parlava della dimensione inclusiva della democrazia, “la democrazia è inclusiva in quanto tende a far entrare nella propria area gli ‘altri’ che stanno fuori per allargare anche a loro i propri benefici […] il processo di democratizzazione, dal secolo scorso ad oggi, è stato un processo graduale di inclusione di individui che prima erano esclusi, una democrazia non può essere esclusiva senza rinunciare alla propria essenza di società aperta”, ma il ’68 guarda alla democrazia come a una finzione, ad una “maschera” che lo Stato indossa, nascondendo il proprio volto autoritario e liberticida.

Eppure uno dei tratti distintivi del ’68 è proprio la sua spinta inclusiva, talmente frastagliata che è complesso riconoscerne una forma.
In questo clima così complesso è proprio la spinta della nuova generazione a trascinare tutto il baraccone, la spontaneità che a volte è stata paragonata ad un atteggiamento giovanilista, ribelle e post adolescenziale.

Gli equivoci si susseguono.

Fa parte dell’immaginario collettivo uno dei capolavori del cinema mondiale: 2001 Odissea nello spazio. HAL 9000 è protagonista di quel futuro “A me piace lavorare con la gente. Ho rapporti diretti ed interessanti con il dottor Poole e con il dottor Bowman. Le mie responsabilità coprono tutte le operazioni dell'astronave, quindi sono perennemente occupato. Utilizzo le mie capacità nel modo più completo; il che, io credo, è il massimo che qualsiasi entità cosciente possa mai sperare di fare”. 

È del 1973 Crash di Ballard; nell’introduzione al libro un passo pone una linea invalicabile in cui definisce il film di Kubrick la fine della “fantascienza”, la fine delle domande su come sarà il nostro futuro: è l’inizio di una nuova era, la fantascienza può solo essere una condizione psicologica. Lo stesso Debord nel 1963 scrive “lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che permettono di realizzare dei prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione. La funzione del cinema è presentare una falsa coerenza isolata, drammatica o documentaria, come surrogato di una comunicazione e un’attività assenti. Per demistificare il cinema documentario, bisogna dissolvere quello che si chiama il suo soggetto… Una ricetta ben consolidata stabilisce che, in un film, tutto ciò che non è dettato per immagini debba essere ripetuto, altrimenti il suo senso sfuggirà agli spettatori. E’ possibile. Ma questa incomprensione è dovunque negli incontri quotidiani... Dopo tutti i tempi morti e i momenti perduti, restano questi paesaggi da cartolina illustrata attraversati senza fine; questa distanza organizzata tra ciascuno e tutti. L’infanzia? Ma è qui; non ne siamo mai usciti. La nostra epoca accumula poteri, e si sogna razionale. Ma nessuno riconosce come suoi dei simili poteri.”

Forse il ’68 è solo un atteggiamento giovanile che crede in quell’utopia che verte sulla condizione individualista dell’uomo? Probabile...
Le neoavanguardie hanno in qualche modo contribuito al clima di critica sociale che imperversava nelle Università?
E quanto riuscirono ad essere slegate dal proprio specifico ambito? La letteratura ne rimase ingabbiata e nelle arti visive l’inflazionata immagine della Galleria L’Attico a Roma in cui J. Kounnelis porta dei cavalli nello spazio pone la domanda: è l’Arte Povera “l'arte / vita”? Ma cos’è l’Arte Povera?

È nel ’69 che Kounnelis vive il riflusso, chiude la porta dello spazio con dei massi a San Benedetto del Tronto; è il momento della disincantata e amara constatazione del fallimento dell'utopia, inghiottita suo malgrado dalle dinamiche commerciali della società dei consumi, presidiata dagli spazi tradizionali di fruizione come musei e gallerie. Si legge di frequente quanto fosse forte lo spirito di negazione all’approccio individualista dell’essere artista che si concretizza nel lavoro e nelle poetiche di gruppo, nella nascita del Collettivo di artisti e nell’ampliamento stesso del concetto di artista come “operatore estetico”, sottintendendo l’apertura dell’arte al servizio della società. Oltre a mettere in discussione sé stessi, gli artisti cominciarono a interrogarsi sul ruolo e l’identità dello spettatore che si voleva attivo e quindi fruitore. Il confronto dell’arte si stabilisce su un livello paritetico a quello del mondo reale. Ma chi entrò a far parte di questo clima?

Mario Merz, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, Giovanni Anselmo, Mario Ceroli, Piero Gilardi, Luigi Mainolfi, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio. A leggere le numerose monografie che troviamo nelle recenti celebrazioni mondiali di un passaggio dell’arte italiana di difficile collocazione, viene un dubbio più che lecito: visto che il concetto era inclusivo l’equivoco è presente nell’esclusione di tutta una serie di interventi a partire da Franco Summa, Boriani, De Vecchi, Forges, Davanzati, Morandi (Volterra 73), Gruppo Salerno ’75, Giuliano Mauri, Laboratorio di Comunicazione Militante, ecc. Senza questi nomi siamo di fronte ad un percorso tanto simile ad una scia lunga dell’arte concettuale, intesa quale critica al sistema specifico, visto che si procede ancora con termini come “spettatore”.

E qui diventa difficile valutare i passaggi, le date sono spesso discordanti e nonostante un’attenta analisi ci si accorge che, pur con una tolleranza di 2-3 anni per eccesso o per difetto, non si riesce a decifrarne il ruolo nel complesso globale di una rivisitazione sociale senza precedenti.
Marcello Vitale, militante di Lotta Continua, tornato sulla terra scrive: “oggi abbiamo una visione più chiara […] che il processo è più lungo. Ma non ci siamo preparati bene per questi tempi lunghi: l’elemento militante medio oggi a Torino o è studente, o è ex studente, o è professore e nessuno di questi è un ruolo sociale determinante, tanto meno se ci si vuole porre come “interlocutore” del gene rivoluzionario. Io mi sono orientato in questo senso: che ognuno si trovi un posto il più possibile vicino al centro produttivo della società e scavi intorno […] voglio dire cercare di essere per quanto possibile nella struttura invece che nella sovrastruttura..” critica buona parte del peregrinare sessantottino, che segue in generale il processo inverso di intervento dall’esterno.

In quello stesso periodo si legge: "Tutto è architettura", Hans Hollein nel 1968 nella rivista "Bau", che suona più settoriale di quanto tuonassero invece le proposte dei poveristi.
Si presupponeva indispensabile pensare che la natura, l’uomo, la politica fossero l“ambiente”, in cui poter coniugare i sogni di una nuova società. Gli anni Sessanta e Settanta, furono gli anni in cui si cercarono i linguaggi e le strategie per immaginare il futuro prossimo, per prevederlo, per prepararsi ad accoglierlo, in un senso “realistico” e non visionario, ma costruttivo, comunitario, paradossalmente pragmatico; furono le esigenze concrete a stabilire l’ ”utopia”.

In questa direzione si rivolse Riccardo Dalisi nelle sue esperienze di lavoro di quartiere con i bambini del Rione Traiano, per una nuova ricerca nel campo del design nel segno del sostegno umano, della ecocompatibilità e della decrescita.

Progettare una “città invisibile” era parte di discussioni che animavano gli Architetti Radicali, che la concepivano per il futuro in base alle intuizioni del presente, intuizioni votate all’inclusione di altri linguaggi e di altre esperienze.
Il protagonista non era lo spettatore, ma l’uomo, non era la sua visione a modificare la società, ma la sua trasformazione psicologica, il suo bisogno di sentirsi oltre le linee. La Funk Architecture venne incontro alle esigenze dello spirito nomade, il Global Tools nacque come sistema di laboratori per l'uso e la diffusione di materiali naturali e tecnologici ponendosi l'obiettivo di "stimolare il libero sviluppo della creatività individuale”.
Il gruppo UFO decostruirono il termine concettuale “declinandolo” quale strumento di azione (Urboeffimeri 1968), innescando una ricerca tipologica attraverso un reportage sulle case dell’Anas; Gianni Pettena rielaborò la percezione sociale del comportamento nelle sue prime azioni pubbliche (Carabinieri, Grazie & Giustizia, Milite ignoto); l’analisi della città e del territorio furono di Ugo La Pietra con i suoi Gradi di libertà, un processo di inclusione tale per cui la figura dell’architetto si dissolveva in un atteggiamento funzionale a un progetto più ampio e utopico, nella trasformazione con e all’interno della moltitudine di stati sociali coinvolti e analizzati. Non si proponeva alcun modello da imitare, l’unico intento era liberare le facoltà creative dell’intera società. In questo quadro Utopia culturale e politica.

L’ennesimo equivoco: gli oggetti “poveri” declinati in chiave concettuale si gestiscono meglio in un mercato dell’arte vorace di feticci.
Non si discute l’Arte Povera in quanto esperienza artistica importante di quegli anni, quanto il suo valore odierno nei confronti del ’68. Nel mondo dell’arte si accosta troppo spesso un sentimento unico di una generazione che vide tanta libertà da scorgere il baratro e spaventata ritirarsi, nascondendosi nel terrorismo, nell’individualismo più sfrenato che ha contraddistinto gli anni ’80-’90, nella supponenza intellettuale di docenti e artisti che hanno rigettato sulle generazioni a seguire le proprie frustrazioni. 

L’insuccesso ha portato al collasso un intero sistema che sopporta un maestro che non ha vinto, ma che ha chinato la testa e all’interno di esso si è imposto quale interlocutore assente, infastidito, perché ha acconsentito a fare la parte del leone impagliato al rientro nella macchina sistemica. In tutti questi anni ci siamo portati dietro questo fardello, questo sentimento patriottico, per dare un senso a quello che fu, dimenticando tutto quello che andava detto con la sincerità disarmante di cui parla Debord.

Ora che l’Arte Povera, probabilmente, si è ritagliata un posto nell’Olimpo della storia dell’arte, forse torneremo a cercare, ripartendo da ciò che ci siamo nascosti per paura…

“All'inizio la contestazione fu una generica ma diffusa, spontanea e straripante aspirazione a far sì che l'uomo non si elevasse ad una sola dimensione. [....], la denuncia veemente per non cadere nel buco nero di un'esistenza tutta 'piccola casa, piccola auto, piccola vita'.”Pino Rauti 1998


Andrea Nacciarriti, artista, indaga un processo di intenzionalità etica nel mondo del l’arte, attraverso codici linguistici che intercorrono tra spazio e percezione dello stesso, tra percezione della realtà sociale e contesto antropologico, tra lettura storiografica ed evento presente. Affronta in costante evoluzione le dinamiche contestuali, a vari livelli, gli aspetti della comunicazione artistica, mettendo in relazione: ruoli, processi, fisicità, atteggiamenti, immagini. Analizza le diverse possibilità umane dell’errore e la definizione di micro-pratiche sociali in cui si evince l’esportabilità delle stesse in macro-scale. L’arte e i modelli culturali inseriti nello spazio sociale riscoprono la possibilità dell’interpretazione, attraverso lo stesso meccanismo con cui si sono consolidate nei tessuti sociali peculiari delle differenti culture, qui vengono ridiscusse e rielaborate in un complesso quanto elementare procedimento di adattamento dell’uomo alle sollecitazioni. Tra le esperienze maggiormente significative i Programmi di Residenza per Artisti: Ekenäs, Finlandia, Beijing, Cina e Imlil, Marocco. Nel 2005 ha preso parte al Corso Superiore di arti Visive della Fondazione Ratti con Alfredo Jaar.


Questo testo è parte del dibattito "Voglia di '68?" avviato da Ermanno Cristini sulle pagine di UnDo.Net, a cui stanno contribuendo artisti e curatori... 

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